di C. Bellardi e A. Di Luca
Davanti al ripetersi dei femminicidi come dentro a dei copioni, si rimane scioccati e inermi. Anche come clinici non rimaniamo indifferenti e molte domande iniziano ad affollare i nostri pensieri e come schegge compaiono tante riflessioni e punti di osservazione, circa le variabili che possono incidere e costruire l’humus in cui poi attecchiscano le dinamiche violente. Molte cose si sono lette, ma vorremmo aprire una riflessione, dando voce alle tante domande, anche impegnative, cercando di guardare anche alle polarizzazioni.
E’ legittimo domandarsi se la sovra-esposizione ai social costituisca un catalizzatore per la proliferazione di profili idealizzati e irraggiungibili?
Andando oltre le ricerche evidence-based, potrebbe aiutare il recupero dell’approccio multidisciplinare delle scienze umane, nel tentativo di comprendere e accettare gli aspetti più insondabili della psiche umana?
Una maggior consapevolezza della parzialità e della “situatezza” delle narrazioni potrebbe aiutare a decodificare meglio il fenomeno?
Ci si potrebbe domandare, in una prospettiva trauma-informed, se anche le professionalità del settore mediatico, e non solo, siano in qualche modo allineate alla narrazione del pre e del post delitto, nelle immagini e nelle parole usate, mostrando dapprima l’assonanza di cromie e interessi per in seguito focalizzarsi sulla truculenza dei dettagli con relativi approfondimenti diagnostici ex post.
Ci domandiamo se possa aiutare soffermarsi sulla comunicazione di questo sui social, sulla galvanizzazione della idealizzazione, sull’insostenibilità dei modelli proposti e sulla conseguente “re-azione scomposta”…
Ci si potrebbe domandare se una lettura multidisciplinare e polifonica anche su questo, potrebbe contribuire ad integrare i frammenti esistenziali e ad imbastire delle rappresentazioni più integrate e realistiche di sé e dell’altra persona.
Ci si chiede, quindi, se il moltiplicarsi di profili social nei quali si alimenta l’illusione che tutto sia velocemente possibile ed altrettanto repentinamente emendabile, non abbia un ruolo importante anche nella violenza domestica. L’entropia e la contraddittorietà dei modelli proposti sui social contribuisce ad aumentare un disagio più o meno consapevole, che può spaziare dalle nuove dipendenze, ai problemi identitari, ai tristemente noti copioni di “relazioni asimmetriche”.
Ci si interroga se non valga la pena integrare il binarismo dei rigorosi criteri della ricerca evidence-based, per accogliere anche riflessioni che vengono da altri ambiti meno mainstream, ma che appartengono all’immaginario.
Chi sono? A chi appartengo? Che progetto ho? Sono i quesiti fondamentali per lo sviluppo della persona che si trovano immersi in un mare magnum di tutto e il contrario di tutto, citando tra gli altri il gettonatissimo discorso “cara donna, ci si aspetta che tu lavori come se non fossi una mamma e che tu sia una mamma come se non lavorassi”.
Ci si potrebbe chiedere come questo ad oggi impatti anche nella coppia, all’interno della quale in seguito alla contrazione degli organizzatori kantiani di spazio, tempo libertà, anche per la Sars-Covid19, molte persone, in sofferenza, si sono tuffate alternativamente in un ancor più intenso disinvestimento o iper-investimento in ambiti esistenziali (approfondimenti, corsi, hobby, cura del corpo, cura della crescita spirituale, impegno sociale).
Ma quando si rallenta e si fanno i conti con il sé reale e il proprio bagaglio di limiti e risorse, cosa succede?
Potrebbe essere che in caso di queste molteplici attività, sovraccarichi, si esca dalla finestra di tolleranza e riemergano “vecchi modelli patriarcali consolidati” dichiaratamente rinnegati?
E’ possibile che faccia capolino un ingestibile senso di impotenza davanti al progressivo disgregarsi dei profili social? E’ possibile che ad un certo punto, al di là delle narrazioni e dei like dichiarati, in interiore homine si assista ad una rarefazione dei diritti e delle dichiarazioni postate perché non interiorizzate fino in fondo? E’ possibile che in certi momenti emergano aspetti ferini che tentino di ripristinare lo status quo ante ideale?
E’ possibile che stiamo seguendo l’agenda-setting, privilegiando il ruolo del detective a scapito di una riflessione più ampia?
E’ possibile che questa progressiva rarefazione dei diritti reali sia in qualche modo manutenuta da un brodo di coltura al cui odore ci si assuefà?
Può essere che esista una specularità tra la pixelizzazzione degli ideali e le incapacità integrative dei soggetti? C’entra quindi l’idealizzazione digitale con i femminicidi? Ci si torna a domandare quindi se la sovraesposizione ai social possa in qualche modo amplificare un’idealizzazione insostenibile. Ed allora come in un vortice di domande, ci si torna a chiedere se l’identificazione con profili social ideali e l’inevitabile scontro con l’esame di realtà possano contribuire a manutenere la cornice culturale potenzialmente esplosiva per la condizione femminile. Già Platone con il mito della caverna ci parlava della distanza dall’ideale. Sempre Platone ci parlava del potere dell’anello di Gige che rendeva invisibili e permetteva quello che non si poteva fare da visibili. Ci si domanda se, parallelamente alla cornice culturale più fruita da secoli, non possa essere utile integrarla in maniera più polifonica, con voci anche di donne che nei secoli hanno tentato di raccontare come, spesso, nelle situazioni divergenti si sia provveduto ad un ritorno al passato, all’”ortodossia” del modello noto. Potremmo rileggere Olympe de Gouges che nel 1971 scrive la Dichiarazione universale dei diritti della donna e della cittadina e nel 1973 viene ghigliottinata, “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso”.
E’ possibile che accada qualcosa di simile alla rana di Chomsky, che gradualmente finisce bollita senza accorgersene? Lo stesso fenomeno viene narrato in termini di apprendistato alla sottomissione da parte di Ernaux, Nobel per la letteratura nel 2022, nel suo libro La donna gelata. La storia, la letteratura la musica e la cronaca ci insegnano tra roghi, lapidazioni, e volti velati che la “libertà di” e la “libertà da” sono ancora da conquistare e consolidare. Basti pensare all’Equal Pay Day del 10 Novembre, nella quale si dimostra che il guadagno di una donna è di 86 centesimi a fronte ad un euro guadagnato dagli uomini. Basti pensare a testi di musica trap, sovrapponibili a letture scolastiche relative all’anno Mille: «Niente, vedo che questo muro aveva un buco, allora ne ho approfittato. E dopo il muro quante altre donne hai avuto?». Basti pensare all’invisibilità del lavoro di cura e al privilegio dell’irresponsabilità del lavoro di cura di cui parla Joan Tronto. Ci si chiede se, al di là della corretta ricerca della evidenza scientifica, potrebbe aiutarci a comprendere questi fenomeni di entropia domestica, attingere anche da altre discipline, recuperando la dimensione originaria degli studi sulla psiche umana e aiutando la presa di consapevolezza delle persone.
Concludiamo le tante domande che auspichiamo possano essere percepite come spunti di riflessione, riportando tre citazioni di Virginia Woolf tratte da Una stanza tutta per sé che in qualche maniera riassumono questo movimento che va dalla frammentazione alla restitutio ad integrum della persona attraverso l’integrazione cercando di ricordare a noi stessi che nessuno di noi può dirsi indenne dal continuo rapporto con la cultura del suo tempo.
“L’anonimità che “scorre nel sangue” del corpo femminile è negazione non tanto del nome del proprio corpo, quanto del corpo del proprio nome”.
“La donna, questo «strano mostro», «questo verme dalle ali d’aquila» splendente nel non luogo della poesia maschile quanto umiliata nella vita quotidiana”.
“Poiché l’essere umano è così fatto che il cuore, il corpo e il cervello stanno tutti insieme e non rinchiusi in compartimenti isolati”.
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