AISTED NEWS

SEMINARIO ANNUALE "La clinica dell'attaccamento traumatico" con Benedetto Farina

Seminario Farina
Assemblea2

 

24-25 Febbraio

Difficile riassumere questi due giorni di studio e confronto con Benedetto Farina che ha tenuto per i nostri soci il seminario “la clinica dell’attaccamento traumatico”.

La riflessione è partita dalla storia relativamente recente del trattamento trauma in Italia che ha visto fiorire negli ultimi anni una crescente quantità di approcci e tecniche; allo stato attuale è però chiaro a tutti il bisogno di mettere a fuoco alcuni aspetti della clinica del trauma che rischiano di portare a semplificazioni riduttive e confusione nell’uso di alcuni termini, come quello di dissociazione, sui cui il dibattito è ancora aperto.

La strada per il confronto che Benedetto Farina ha tracciato è stata ricca di ricerche sulla neurobiologia del trauma e analisi di dati scientifici in cui si evidenzia come il fattore di rischio per lo sviluppo di politraumatizzazione sia il neglect che rappresenta il 75% delle forme di maltrattamento infantile (the Child Maltratment Report, 2019).

In queste due giornate di incontro tra ricerca e clinica si è riflettuto sul concetto di attaccamento traumatico, non come diagnosi clinica, ma come condizione patogenetica generale che dovrebbe essere preso in considerazione dai clinici perché peggiora la prognosi e rende la terapia molto più difficile a causa dell’ implicito che si muove nella relazione terapeutica.

La discussione è stata ricca e veramente nutritiva, anche sul tema caro ad AISTED: la dissociazione. É una definizione utilizzata per indicare fenomeni diversi di cui è bene conoscere a fondo le differenze e i processi, anche per individuare l'intervento terapeutico più adatto.

 

I soci AISTED possono trovare nell'area riservata il materiale che Benedetto Farina ha condiviso durante il seminario e ha messo a nostra disposizione.

Su State Of Mind potete anche trovare un articolo di report dal seminario!

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iscrizioni

 

E' partita la nuova campagna iscrizioni alla nostra Associazione, rinnovata in AISTED Aps.

Solo per quest'anno, nel passaggio formale da AISTED ad AISTED Aps, anche coloro che sono già soci dovranno inviare il nuovo  modulo compilato, che trovate in allegato, con i propri dati a segretario@aisted.it per completare l'iscrizione, corredato delle ricevute dei versamenti ad AISTED Aps ed ESTD.

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25 novembre 2023: la giornata per il contrasto alla violenza sulla donna tra IDEALIZZAZIONE DIGITALE, FRAMMENTAZIONE E MULTIDISCIPLINARITA’

 

occhio

 

di C. Bellardi e A. Di Luca

 

Davanti al ripetersi dei femminicidi come dentro a dei copioni, si rimane scioccati e inermi. Anche come clinici non rimaniamo indifferenti e molte domande iniziano ad affollare i nostri pensieri e come schegge compaiono tante riflessioni e punti di osservazione, circa le variabili che possono incidere e costruire l’humus in cui poi attecchiscano le dinamiche violente. Molte cose si sono lette, ma vorremmo aprire una riflessione, dando voce alle tante domande, anche impegnative, cercando di guardare anche alle polarizzazioni.

 

E’ legittimo domandarsi se la sovra-esposizione ai social costituisca un catalizzatore per la proliferazione di profili idealizzati e irraggiungibili? 

Andando oltre le ricerche evidence-based, potrebbe aiutare il recupero dell’approccio multidisciplinare delle scienze umane, nel tentativo di comprendere e accettare  gli aspetti più insondabili della psiche umana? 

Una maggior consapevolezza della parzialità e della “situatezza” delle narrazioni potrebbe aiutare a decodificare meglio il fenomeno? 

Ci si potrebbe domandare, in una prospettiva trauma-informed, se anche le professionalità del settore mediatico, e non solo, siano in qualche modo allineate alla narrazione del pre e del post delitto, nelle immagini e nelle parole usate,  mostrando dapprima l’assonanza di cromie e interessi per in seguito focalizzarsi sulla truculenza dei dettagli con relativi approfondimenti diagnostici ex post

Ci domandiamo se possa aiutare soffermarsi sulla comunicazione di questo sui social, sulla galvanizzazione della idealizzazione, sull’insostenibilità dei modelli proposti e sulla conseguente “re-azione scomposta”… 

Ci si potrebbe domandare se una lettura multidisciplinare e polifonica anche su questo, potrebbe contribuire ad integrare i frammenti esistenziali e ad imbastire delle rappresentazioni più integrate e realistiche di sé e dell’altra persona.

Ci si chiede, quindi, se il moltiplicarsi di profili social nei quali si alimenta l’illusione che tutto sia velocemente possibile ed altrettanto repentinamente emendabile, non abbia un ruolo importante anche nella violenza domestica. L’entropia e la contraddittorietà dei modelli proposti sui social contribuisce ad aumentare un disagio più o meno consapevole, che può spaziare dalle nuove dipendenze, ai problemi identitari, ai tristemente noti copioni di “relazioni asimmetriche”. 

Ci si interroga se non valga la pena integrare il binarismo dei rigorosi criteri della ricerca evidence-based, per accogliere anche riflessioni che vengono da altri ambiti meno mainstream, ma che appartengono all’immaginario. 

Chi sono? A chi appartengo? Che progetto ho? Sono i quesiti fondamentali per lo sviluppo della persona che si trovano immersi in un mare magnum di tutto e il contrario di tutto, citando tra gli altri il gettonatissimo discorso “cara donna, ci si aspetta che tu lavori come se non fossi una mamma e che tu sia una mamma come se non lavorassi”. 

Ci si potrebbe chiedere come questo ad oggi impatti anche nella coppia, all’interno della quale in seguito alla contrazione degli organizzatori kantiani di spazio, tempo libertà, anche per la Sars-Covid19, molte persone, in sofferenza, si sono tuffate alternativamente in un ancor più intenso disinvestimento o iper-investimento in ambiti esistenziali (approfondimenti, corsi, hobby, cura del corpo, cura della crescita spirituale, impegno sociale).

Ma quando si rallenta e si fanno i conti con il sé reale e il proprio bagaglio di limiti e risorse, cosa succede? 

Potrebbe essere che in caso di queste molteplici attività, sovraccarichi, si esca dalla finestra di tolleranza e riemergano “vecchi modelli patriarcali consolidati” dichiaratamente rinnegati? 

E’ possibile che faccia capolino un ingestibile senso di impotenza davanti al progressivo disgregarsi dei profili social? E’ possibile che ad un certo punto, al di là delle narrazioni e dei like dichiarati, in interiore homine si assista ad una rarefazione dei diritti e delle dichiarazioni postate perché non interiorizzate fino in fondo? E’ possibile che in certi momenti emergano aspetti ferini che tentino di ripristinare lo status quo ante ideale? 

E’ possibile che stiamo seguendo l’agenda-setting, privilegiando il ruolo del detective a scapito di una riflessione più ampia? 

E’ possibile che questa progressiva rarefazione dei diritti reali sia in qualche modo manutenuta da un brodo di coltura al cui odore ci si assuefà? 

Può essere che esista una specularità tra la pixelizzazzione degli ideali e le incapacità integrative dei soggetti? C’entra quindi l’idealizzazione digitale con i femminicidi? Ci si torna a domandare quindi se la sovraesposizione ai social possa in qualche modo amplificare un’idealizzazione insostenibile. Ed allora come in un vortice di domande, ci si torna a chiedere se l’identificazione con profili social ideali e l’inevitabile scontro con l’esame di realtà possano contribuire a manutenere la cornice culturale potenzialmente esplosiva per la condizione femminile. Già Platone con il mito della caverna ci parlava della distanza dall’ideale. Sempre Platone ci parlava del potere dell’anello di Gige che rendeva invisibili e permetteva quello che non si poteva fare da visibili. Ci si domanda se, parallelamente alla cornice culturale più fruita da secoli, non possa essere utile integrarla in maniera più polifonica, con voci anche di donne che nei secoli hanno tentato di raccontare come, spesso, nelle situazioni divergenti si sia provveduto ad un ritorno al passato, all’”ortodossia” del modello noto. Potremmo rileggere Olympe de Gouges che nel 1971 scrive la Dichiarazione universale dei diritti della donna e della cittadina e nel 1973 viene ghigliottinata, “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso”. 

E’ possibile che accada qualcosa di simile alla rana di Chomsky, che gradualmente finisce bollita senza accorgersene? Lo stesso fenomeno viene narrato in termini di apprendistato alla sottomissione da parte di Ernaux, Nobel per la letteratura nel 2022, nel suo libro La donna gelata. La storia, la letteratura la musica e la cronaca ci insegnano tra roghi, lapidazioni, e volti velati che la “libertà di” e la “libertà da” sono ancora da conquistare e consolidare. Basti pensare all’Equal Pay Day del 10 Novembre, nella quale si dimostra che il guadagno di una donna è di 86 centesimi a fronte ad un euro guadagnato dagli uomini. Basti pensare a testi di musica trap, sovrapponibili a letture scolastiche relative all’anno Mille: «Niente, vedo che questo muro aveva un buco, allora ne ho approfittato. E dopo il muro quante altre donne hai avuto?».  Basti pensare all’invisibilità del lavoro di cura e al privilegio dell’irresponsabilità del lavoro di cura di cui parla Joan Tronto. Ci si chiede se, al di là della corretta ricerca della evidenza scientifica, potrebbe aiutarci a comprendere questi fenomeni di entropia domestica, attingere anche da altre discipline, recuperando la dimensione originaria degli studi sulla psiche umana e aiutando la presa di consapevolezza delle persone. 

Concludiamo le tante domande che auspichiamo possano essere percepite come spunti di riflessione, riportando tre citazioni di Virginia Woolf tratte da Una stanza tutta per sé che in qualche maniera riassumono questo movimento che va dalla frammentazione alla restitutio ad integrum della persona attraverso l’integrazione cercando di ricordare a noi stessi che nessuno di noi può dirsi indenne dal continuo rapporto con la cultura del suo tempo.

 

 

“L’anonimità che “scorre nel sangue” del corpo femminile è negazione non tanto del nome del proprio corpo, quanto del corpo del proprio nome”. 

“La donna, questo «strano mostro», «questo verme dalle ali d’aquila» splendente nel non luogo della poesia maschile quanto umiliata nella vita quotidiana”.

“Poiché l’essere umano è così fatto che il cuore, il corpo e il cervello stanno tutti insieme e non rinchiusi in compartimenti isolati”.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • AA.VV., Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini. Blonk Editore, 2017
  • Beccalli B., Martucci C. (a cura di), Con voci diverse. La tartaruga edizioni, Milano 2005
  • Casadei T., Milazzo L., (2021), Olympe de Gouges. Donne, schiavitù, cittadinanza. Edizioni ETS, Pisa
  • Chomsky N., (2014), Media e potere. Bepress Edizioni, Lecce
  • Erneaux A., (2021), La donna gelata. L’orma editore, Roma
  • Folbre N., Who pays for the kids?. Gender and the Structures of constraints. Traylor & Francis ltd., 1994.
  • Gilligan C., Con voce di donna. Etica e formazione della personalità. Feltrinelli, Milano, 1991.
  • Maestroni V., Casadei C., (a cura di), (2022), La dichiarazione sovversiva . Olympe de Gouges e noi. Mucchi Editore, Modena
  • Hill Collins P., Black feminist Thought. Knowlwdgw, consciousness and the politics of empowerment. Routledge, New York, 1991.
  • Young I. M.., Le politiche della differenza. Feltrinelli, Milano, 1996.
  • Kittay, E. F., Love’s labor. Essays on Woman, Equality and Dependency. Francis & Taylor ltd. 2019.
  • Restaino F., Cavarero A., Le filosofie femministe. Paravia, Torino, 1999.
  • Sabatini A., Il sessismo nella lingua italiana. Istituto poligrafico e zecca dello stato, Roma, 1987.
  • Sassaroli et al., Autonomy and Submissiveness as cognitive and cultural factors influencing eating disorders in Italy and Sweden. Europe’s Journal of Psychology, 2015.
  • Tisselli G., (2021), Dalla rabbia alla gentilezza. Mimesis, Milano-Udine
  • Tronto J., Confini morali, Diabasis, Parma, 2006.
  • Woolf V., (2005), Una stanza tutta per sé. Feltrinelli Editore, Milano

Considerazioni del Direttivo AISTED Aps sul caso Foti

 

Caso Foti

 

AISTED accoglie la sentenza che assolve il collega Claudio Foti dalle precedenti accuse con un senso di gioia e sollievo.
 

Questa assoluzione inizia a fare luce su una vicenda complessa, confusa e confondente. Accanto alle fasi di indagine e al processo svolto nelle aule di giustizia, è andato in onda sui media un più articolato e violento processo, quest’ultimo senza tutte le regole dell’esercizio della legge, qui non è prevista l’inammissibilità delle prove tutte rese credibili dalla narrazione.
 

Come traumatologi non può passare inosservata la violenza della disputa a cui abbiamo assistito: è in linea con la violenza che la traumatizzazione provoca ad ondate nella società, in cui la sensazione di pericolo di fronte all'orrore di alcune storie, porta a inevitabili ed estreme polarizzazioni emotive che muovono in un continuum dalla negazione della violenza all'iperidentificazione con le vittime, (come Judith Herman ci insegna) alla ricerca di un colpevole perdendo comunque la capacità di osservare gli eventi nella loro interezza e analizzarli da più vicino con la necessaria calma e lucidità.

Ora calma e lucidità sono arrivate e di fronte ad una sentenza giusta e rispettosa del lavoro del collega, siamo ancora più consapevoli della paura e della sfiducia che questo attacco mediatico ingiusto ha prodotto nella nostra rete professionale e nella società.

Una comunicazione che ha finito per alimentare lo stigma verso la salute mentale e verso l'idea della totale fragilità e malleabilità della mente umana e del suo possibile condizionamento in un periodo dove il bisogno di cura psicologica è percepito come urgente.

 

Cogliendo l’occasione di questa vicenda, quando si opera a contatto con esperienze sfavorevoli infantili in scenari traumatici e dissociativi, ci sono alcune cose da tenere bene a mente:

 

-E’ importante ricordare che la responsabilità della cura è sempre una responsabilità collettiva: il singolo terapeuta può fare la sua parte e scegliere gli strumenti migliori in suo possesso per svolgere al meglio e in scienza e coscienza il suo lavoro, ma questo deve avvenire in un sistema sanitario e giuridico capaci di comprenderne il ruolo e riconoscerne le specificità.

 

-E’ importante tenere a mente che molto frequentemente sono situazioni che rimandano a ipotesi di reato; essere attori, anche non protagonisti, della scena del trauma comporta rischi (e costi) ad intervenire così come a non intervenire, a tutti i livelli: individuale, personale, societario. E’ importante, questa sentenza ce lo dimostra, riaffermare il valore sociale della giustizia per ognuno di noi, specialmente per chi si è trovato ad essere vittima di violenza.

 

-E’ importante conoscere le linee guida nazionali e internazionali e il valore di non essere soli, ma in una rete di colleghi(meglio se formati o esperti) con cui restare in un confronto continuo, aperto sulle proprie difficolta di operatori e sulle sfide cliniche che questo ambito impone.

 

-E’ necessario e fondamentale avere chiaro che di fronte a esperienze di vita traumatiche come una violenza subita, la mente umana per garantire la sopravvivenza, debba o possa dissociarsi. Essere a conoscenza di come la dissociazione possa avvenire e di come, anche all’interno di percorso terapeutico, il dolore intenso che può riaffiorare, può terrorizzare nuovamente: riconoscere e accettare l'orrore subito può essere un'esperienza che continua a spaventare e da cui voler prendere le distanze anche nel qui ed ora. Il terapeuta che lavora con trauma e dissociazione entra a contatto con tutto questo orrore.

 

-E’ necessario diffondere ed assumere una cultura allargata "trauma dissociative informed" a tutti i livelli che attraverso un linguaggio accessibile possa fornire delle lenti per osservare e riflettere su quanto accade, per dare dignità alla sofferenza e voce a chi non può parlare e difendersi (i minori), a chi spesso ancora non viene creduto perché piccolo e troppo suggestionabile o perché le istituzioni, ad esempio la scuola in questo momento, non riescono a tenere nella mente la complessità di ciò che accade.

 

-E’ necessario un sistema giustizia informato sul funzionamento traumatico, per meglio comprendere e operare. Il rischio di sbagliare c'è e va considerato alto in un lavoro così complesso, soprattutto entrando spesso in sistemi familiari altamente disfunzionali in cui si può facilmente restare invischiati, ma gli strumenti per lavorare bene ci sono e condivisi dalle più note associazioni italiane e internazionali.

 

AISTED vuole cogliere l’occasione per mettere in evidenza questi punti di attenzione. Il nostro è un lavoro prezioso e complesso. Per questa ragione abbiamo da sempre portato avanti gruppi di confronto e crescita professionale interni, nazionali e internazionali.

AISTED s’impegna nella raccolta e nella diffusione delle best practice e delle evidenze scientifiche più recenti, anche in uno dei campi più delicati e gravosi: la prevenzione, la tutela, la diagnosi e la cura della traumatizzazione precoce e complessa e il funzionamento dissociativo in età evolutiva. 

AISTED continuerà a lavorare per poter essere un costante punto di riferimento anche in questi momenti complessi, per supportare tutti, le vittime ma anche coloro coinvolti in lavori così difficili, siano essi sul campo o nel ruolo di vigili. 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Herman, J.L. “Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo”, Magi Edizioni 2005.
  • Herman, J.L. “Truth and Repair: How Trauma Survivors Envision Justice”, Basics Books, 2023.

Recensione: Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione

Conversazioni con Giovanni Liotti

"Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione"

a cura di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa, Antonio Onofri

Edizioni ApertaMenteWeb 2023

 

di Camilla Marzocchi, Consigliera AISTED

 

Ultimo arrivato nella nostra Bibliografia Essenziale di Psicotraumatologia, "Conversazioni con Giovanni Liotti su trauma e dissociazione" risulta un dono speciale per tutti i terapeuti esperti o che vogliano avvicinarsi alla psicotraumatologia, un dono perché gli autori si sono dedicati con perizia e cura ad un corposo lavoro di raccolta di materiali personali, appunti, interviste, trascritti di lezioni e supervisioni, per offrire al lettore un dialogo diretto con Giovanni Liotti, a ormai cinque anni dalla sua morte, rendendo fruibile il suo pensiero e soprattutto la sua dialettica e apertura inconfondibili.

Per chi ha avuto l'onore di assistere alle lezioni di Liotti, la lettura scorre veloce e appassionata proprio come le sue lezioni, con qualche sorriso e molta nostalgia, ma lasciando l'attenzione incollata alle parole che affiorano dalla sua viva voce, insieme alla consueta e inarrestabile velocità del pensiero e delle riflessioni di ampio respiro che permettono di spaziare dalle neuroscienze alla letteratura, dalla fisiologia alla pittura, mantenendoci però ben saldi allo sguardo clinico sempre centrato alla chiave di lettura a lui cara: identificare la psicopatologia della dissociazione attraverso le più svariate e complesse esperienze di umana sofferenza. Per chi non avesse mai avuto la possibilità di un incontro diretto con Giovanni Liotti, questo libro è certamente un'occasione preziosa da cogliere, ricca di spunti storici e riflessioni sulla nascita del suo pensiero, digressioni sulle diverse fasi storiche che la ricerca sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione ha attraversato, il tutto arricchito da molti inserti e note degli autori che permettono anche ai lettori meno esperti di orientarsi nel testo e di integrare le informazioni e le citazioni essenziali che scorrono densissime nel dialogo-intervista.

Il testo è organizzato in tre parti tra loro complementari e interconnesse.

La Prima parte si focalizza su Psicopatologia e Dissociazione, offrendo un'ampia riflessione sulle basi del pensiero liottiano: la definizione di trauma dello sviluppo, la disorganizzazione del sistema di attaccamento legato all'esposizione ad eventi sfavorevoli e traumatici nella prima infanzia, il sistema di difesa come organizzatore centrale dell'esperienza del bambino, in assenza di aiuto e protezione, e la dissociazione come effetto di questi fallimenti nel ripristino di condizioni sufficienti di sicurezza. La disgregazione della coscienza che ne consegue configura la dissociazione come un effetto diretto (e non difesa!) del collasso di tutte le altre risposte di sopravvivenza. Questa inaccessibilità al sistema di attaccamento/accudimento è per Liotti sempre la causa primaria alla base di tutta la psicopatologia post-traumatica e in particolare della psicopatologia legata ai traumi cumulativi (trauma complesso), poiché per un bambino non c'è trauma se intervengono protezione e salvezza da parte delle figure di riferimento e non c'è disorganizzazione della coscienza se quel bambino, pur esposto a condizioni di pericolo di vita, può accedere tempestivamente alle cure e al sistema di accudimento di almeno un adulto centrato e capace di sintonizzarsi con i suoi bisogni primari. Per ogni bambino un evento di minaccia seguito immediatamente da un'esperienza efficace di sintonizzazione e sicurezza resta un brutto ricordo di un pericolo scampato, ma non necessariamente un trauma. In estrema sintesi questi assunti guidano tutto il pensiero di Liotti, orientato a valorizzare - nella ricerca come nella clinica - la necessità di riparare alla frattura originaria della coscienza, che non è mai determinata (solo) dal trauma, inteso come evento di minaccia alla vita, ma dalla concomitante assenza di una connessione sicura e protettiva capace di offrire aiuto e supporto. Questa assenza può manifestarsi a causa di un caregiver spaventoso/spaventante o trascurante (neglect), ma anche di un caregiver presente ma abdicante, condizione quest'ultima particolarmente dolorosa e difficile da riconoscere poiché il caregiver c'è ma è assorbito da altro, dalle sue stesse emozioni o sopraffatto da altri problemi all'interno e non è emotivamente disponibile.  Liotti definisce "la solitudine in presenza" come una condizione irredimibile, peggiore dell'assenza in cui è ancora possibile e accessibile il tentativo di raggiungere l'altro.

Ognuna di queste condizioni relazionali è foriera, in ogni bambino che si trovi a sperimentarla, di un blocco del naturale sistema di attaccamento di fronte a quella che si configura come una situazione emotiva "senza via di uscita" (paura senza sbocco): il bisogno di protezione attiva naturalmente il sistema di attaccamento verso il caregiver, che si rivela del tutto inadeguato - se non addirittura minaccioso - nell'offrire cura e conforto. Dunque nell'impossibilità fisiologica di lottare o fuggire quel bambino dovrà sopperire alla mancanza di protezione con strategie controllanti verso il caregiver - accudenti o punitive - che gli consentiranno (forse) di avere quel minimo di contatto sufficiente a garantirsi la sopravvivenza in un ambiente ostile e per recuperare un senso di padronanza di sé (appena) sufficiente a non scivolare nel collasso generale delle strategie di difesa (crollo dorso vagale), che significherebbero altrimenti svenimento (morte apparente) e quindi dissociazione. Queste ultime manifestazioni potranno restare silenti nel sistema nervoso, inibite dall'attivazione delle strategie di controllo, ma prima o poi tenderanno a manifestarsi, spesso anche a distanza di anni, di fronte al fallimento delle stesse strategie controllanti (as esempio: in caso di lutto, malattia, separazioni).

Da qui la nascita dei presupposti clinici che aprono alla Seconda parte del testo: Clinica della Dissociazione, in cui l'alleanza terapeutica e la stabilizzazione costituiscono i meccanismi centrali del lavoro terapeutico proposto, preliminari ad un lavoro solo successivo sull'Elaborazione delle memorie traumatiche e possibilmente poi di Integrazione.

Lavorare sull'alleanza, dal punto di vista evoluzionistico, vuol dire per Liotti lavorare principalmente (e continuamente!) con l'attivazione del sistema cooperativo nel terapeuta e nel paziente, cercando di inibire, regolare o reindirizzare ogni attivazione del sistema di accudimento (del terapeuta) e di attaccamento (del paziente), poiché in situazioni di disorganizzazione dell'attaccamento tali sistemi risultano "avvelenati" (cito testualmente) dalle esperienze sfavorevoli e quindi non più accessibili in un modo sicuro, anche a fronte di nuove condizioni di sicurezza e conforto come quelle che possono crearsi in terapia. Dunque il dialogo clinico deve essere costantemente orientato all'osservazione cooperativa di quello che emerge nell'esperienza del paziente, attraverso una "sintonizzazione paritaria", cioè in cui ognuno ha pari dignità nel proprio specifico punto di osservazione, seppur nei diversi ruoli, e in grado di stimolare gradualmente la curiosità del paziente verso la sua stessa esperienza interna. Grave sarebbe per il terapeuta cadere in atteggiamenti eccessivamente compassionevoli o accudenti, sebbene siano sentimenti umani e frequenti a fronte di storie traumatiche spesso cariche di tragicità, ma il faro guida è e deve restare evitare il sistema di attaccamento avvelenato e stimolare il sistema cooperativo per "lavorare insieme" sui sintomi, sul passato e sulla eredità delle esperienze sfavorevoli infantili. Questa raccomandazione è ricorrente in tutto il testo, con la forza delle basi neuroscientifiche e la forza della sua stessa esperienza clinica di lavoro con pazienti gravemente traumatizzati, che viene molto chiaramente trasmessa attraverso numerosi aneddoti e vignette cliniche preziose per il lettore. Tra le molte riflessioni, attenzione particolare viene dedicata alla primaria necessità per i terapeuti di confrontarsi con il sentimento dell'impotenza (helplessness), prima di ogni altro intervento clinico. Se c'è stato un trauma e se il trauma si verifica quando c'è fallimento dell'attaccamento e il conseguente collasso del sistema di difesa del bambino, allora c'è sempre stata anche l'esperienza sentita (felt sense), nel corpo e nella mente, di uno stato di sopraffazione e impotenza totali (con attivazione del vago dorsale), esperienza che può essere solo parzialmente compensata con le strategie controllanti (almeno finché funzionano), ma che resta "sotto pelle" nel sistema nervoso e riaffiora in molte diverse forme nell'esperienza attuale del paziente: la derealizzazione e la depersonalizzazione sono esperienze che nascono dall'antica impotenza vissuta e che generano di nuovo impotenza nel presente, poiché sono sintomi che il paziente vive come incontrollabili e inquietanti e questo è il primo aspetto su cui basare l'intervento sull'alleanza terapeutica. Il sentimento di impotenza può manifestarsi ancora di fronte alla continua attivazione di flashback e intrusioni somatiche, sintomi di conversione e paralisi improvvise, perdite e anestesie sensoriali, pensieri ricorrenti e negativi su di sé come l'essere "senza speranza" o "definitivamente danneggiati". L'impotenza verso le difficoltà relazionali e la fatica di leggere le emozioni e i comportamenti degli altri senza adeguate capacità di mentalizzazione e comprensione. Ogni manifestazione di impotenza va affrontata sin da subito in terapia proprio per alimentare l'alleanza, sempre cooperativa!, e favorire la comprensione dell'esperienza soggettiva del paziente in una cornice di senso e soprattutto di sicurezza e assenza di giudizio. Gli interventi di psicoeducazione e normalizzazione sono preziosi alleati di questa fase, così come le tecniche topdown e bottomup di regolazione emotiva, che possono offrire al paziente un crescente senso di padronanza sulle proprie emozioni difficili. Di nuovo, tutte queste strade vanno pensate come modi per guidare il paziente fuori dal proprio senso di impotenza, scritto nel corpo a causa delle esperienza anctiche e rinnovato nel presente attraverso i sintomi più invalidanti. Da questa padronanza e stabilizzazione si parte per esplorare i significati che il paziente ha dato alla sua stessa esperienza fino a quel momento, per co-costruirne di nuovi attraverso la comprensione e l'integrazione di una prospettiva presente. 

Ultima parte, meno sviluppata ma non meno importante, è dedicata a Età evolutiva e altre situazioni cliniche. Con diversi spunti di riflessioni anche sul ruolo del terapeuta nella terapia con i bambini e sui diversi modi in cui la dissociazione può presentarsi nell'infanzia, con particolare attenzione alle manifestazioni somatiche e al ricorso alle metafore che nei bambini possono assumere una concretezza essenziale per leggere e diagnosticare sintomi per loro difficili da descrivere, come la depersonalizzazione. Molti esempi e vignette cliniche aiutano anche qui a dipanare la intricata matassa del lavoro con i bambini traumatizzati, soprattutto alle difficoltà di doversi relazionare in modo diretto e possibilmente cooperativo al loro contesto familiare di appartenenza, tematica che ha non poche implicazioni e difficoltà per ogni terapeuta che lavori in questo ambito.

Lo scorrere delle pagine è accompagnato da continui riferimenti, aneddoti e confronti con clinici esperti, italiani e internazionali, che ci parlano di un fermento e di una ricchezza di scambi dagli anni 60 ad oggi sui temi del trauma e della dissociazione, di cui Giovanni Liotti è stato autorevole e indiscusso protagonista e che lascia a noi la complessa opera di studio, approfondimento e scoperta, per un tema che è ancora molto da esplorare e difendere, ma su cui le neuroscienze continuano e continueranno a segnalarci la strada da seguire.

 

DISPONIBILE LIBRO CON ECM SU APERTAMENTE WEB! 

 

  • Ardovini C, La Rosa C., Onofri A. (2023) Conversazioni con Giovanni Liotti su trauma e Dissociazione (VOLUME 1), Ed. ApertaMenteWeb Info e dettagli: https://www.apertamenteweb.com/product/7609/

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 7

Capitolo 7

Il contributo delle pratiche Mindfulness nella fase di stabilizzazione dei sintomi post-traumatici

di Martina Stagi

 

Capitolo 7

 

La pratica della consapevolezza

è sintonizzarci col desiderio del nostro cuore.

M. Hookham

 

Cosa si intende per Mindfulness?

Il termine mindfulness o consapevolezza non discorsiva, significa prestare attenzione al momento presente in modo intenzionale e non giudicante.

La sua introduzione in occidente e la sua ampia diffusione si deve al lavoro pionieristico di Jon Kabat-Zinn, che alla fine degli anni ‘70 elaborò un protocollo di gestione dello stress (MBSR) fondato su pratiche meditative di antica tradizione buddhista, ma adattate al contesto della medicina comportamentale.

Da allora disponiamo di diversi interventi strutturati basati sulla mindfulness, che si offrono alla validazione scientifica e di numerosi studi, che ne confermano l’utilità nel trattamento di un’ampia gamma di disturbi mentali e fisici. L’idea di base di questi interventi è che la consapevolezza sia un’abilità innata del nostro cervello, che può essere rafforzata attraverso interventi specifici.

Gli studi che hanno indagato l’efficacia degli interventi mindfulness-based nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress e dei disturbi dissociativi, hanno mostrato risultati promettenti, ma gli studi sistematici sono ancora poco numerosi. Mi soffermerò, quindi, a descrivere da un punto di vista clinico gli ostacoli che i sopravvissuti potrebbero incontrare nel praticare la mindfulness e cosa può essere fatto per rendere questi interventi centrati sul trauma, in accordo con la letteratura disponibile sul tema.

Nel corso di questo mio contributo vorrei chiarire come il trauma, in particolare se precoce e ripetuto, impatti sulle naturali abilità di mindfulness e come al contempo le pratiche di consapevolezza possano essere un prezioso antidoto agli effetti del trauma. Molti degli interventi di stabilizzazione inclusi in questo ebook possono trovare in essa un terreno capace di valorizzarne l’azione.

Continua a leggere scaricando l'allegato!

 

Leggi i capitoli precedenti 

Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

Capitolo 2 - Introduzione alla Somatic Experiencing

Capitolo 3 - Stabilizzazione e Confini: mettere paletti per regolarsi

Capitolo 4 - Stili di vita, stabilizzazione e psicoterapia

Capitolo 5 - L'utilizzo dell'abbraccio a farfalla e del tapping per la stabilizzazione

Capitolo 6 - Il respiro: una risorsa a portata di mano

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 6

Capitolo 6

Il respiro: una risorsa a portata di mano

di Laura Fino

Capitolo 6

 

Il respiro è il ponte che collega la vita alla coscienza,

che unisce il corpo ai nostri pensieri.

Ogni volta che la vostra mente si disperde,

utilizzate il respiro come mezzo

per prendere di nuovo in mano la vostra mente

(Thich Nhat Hanh)

 

Nella stabilizzazione il respiro è una risorsa importante, trasversale a diverse discipline: troviamo infatti moltissimi riferimenti al respiro e alle tecniche di respirazione nella psicotraumatologia, nella mindfulness, nello yoga.

La respirazione è una delle poche funzioni corporee involontarie che possono essere modificate in modo volontario e consapevole.

Attraverso la consapevolezza del respiro possiamo imparare a contrastare abitudini limitanti di respirazione e massimizzare quello che il nostro respiro può fare per noi come risorsa. Respiriamo 24 ore al giorno, ma per la maggior parte del tempo non ci pensiamo e non ci facciamo caso!

Il respiro ci fornisce una via preferenziale verso il sistema nervoso autonomo.

Nel modo in cui respiriamo risiede l’opportunità di modellare il sistema nervoso verso la sicurezza e la connessione.

Il Sistema Nervoso Autonomo regola il nostro respiro in base ai nostri bisogni metabolici momento per momento. Il respiro è automatico, ma possiamo anche respirare intenzionalmente, andando così a modificare il livello di attivazione del nostro sistema nervoso.

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Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

Capitolo 2 - Introduzione alla Somatic Experiencing

Capitolo 3 - Stabilizzazione e Confini: mettere paletti per regolarsi

Capitolo 4 - Stili di vita, stabilizzazione e psicoterapia

Capitolo 5 - L'utilizzo dell'abbraccio a farfalla e del tapping per la stabilizzazione

 

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 5

Capitolo 5

L'utilizzo dell'abbraccio della farfalla e del tapping per la stabilizzazione

di Sara Ugolini

Capitolo 5

 

Ormai da diversi anni l’EMDR è considerato un intervento evidence based non solo per il trattamento del trauma, ma anche per il trattamento precoce della popolazione “in fase acuta” durante eventi critici nei contesti emergenziali, a seguito di calamità naturali e gravi incidenti.

Secondo le linee guida del 2018 pubblicate dalla International Society for Traumatic Stress Studies (ISTSS) l’EMDR utilizzato in contesti di emergenza contribuisce a prevenire lo sviluppo del Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD) e di altri disturbi psicologici.

La sfida che ci troviamo attualmente a fronteggiare è particolarmente impegnativa in quanto ci troviamo di fronte a un pericolo che è invisibile, ma continuamente presente in mezzo a noi, e che ci porta ad avere preoccupazioni e percezione di minaccia non solo per il presente, ma anche per il futuro.

Di fronte a un livello di stress continuo e persistente è necessario diffondere tra la popolazione e tra gli operatori della salute mentale la conoscenza di strumenti e interventi di stabilizzazione finalizzati alla costruzione della resilienza, con il duplice obiettivo di aiutare a gestire meglio le sofferenza del momento, ma anche di prevenire il consolidarsi di sintomi post-traumatici e ridurre il più possibile la vulnerabilità allo sviluppo di disturbi mentali nel prossimo futuro.

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Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

Capitolo 2 - Introduzione alla Somatic Experiencing

Capitolo 3 - Stabilizzazione e Confini: mettere paletti per regolarsi

Capitolo 4 - Stili di vita, stabilizzazione e psicoterapia

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 4

Capitolo 4

Stili di vita, stabilizzazione e psicoterapia

di Donatella Masante

Capitolo 4

 

Sempre più interesse riscontra in ambito psicoterapeutico l’integrazione del lavoro clinico con il miglioramento degli stili di vita.

Sono numerosi ormai i lavori e le evidenze a favore del fatto che i comportamenti quotidiani messi in atto dalle persone incidano significativamente sulla qualità di vita e sulla loro salute oltre che essere strettamente correlati con il benessere psicologico.

In linea generale si intendono con stile di vita le condotte collegate all’alimentazione, al movimento ed al sonno e più in generale tutte le abitudini che possono aiutarci a vivere meglio, più a lungo, con una ricaduta importante sulla qualità di vita.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nei prossimi anni a causa di stili di vita non regolari o insani aumenterà il livello di prestazioni sanitarie richieste, nonché un aumento delle patologie correlate allo stress, e una riduzione dell’aspettativa di vita in particolare per coloro i quali sono affetti da obesità, consumano regolarmente fumo e alcool.

Ma quale può essere il senso di far entrare gli stili di vita anche nello studio dello psicoterapeuta?

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Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

Capitolo 2 - Introduzione alla Somatic Experiencing

Capitolo 3 - Stabilizzazione e Confini: mettere paletti per regolarsi

 

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 3

Capitolo 3

Stabilizzazioni e Confini: Mettere paletti per regolarsi

di Raffaele Avico

Capitolo 3

Il problema della stabilizzazione riguarda la prima fase del lavoro con pazienti post traumatici: sappiamo che riguarda il tentativo di stabilizzare la potenza dei sintomi al fine di consentire un migliore accesso alle memorie traumatiche.

Un aspetto poco approfondito e poco trattato della stabilizzazione, da usare come strumento aggiuntivo agli altri, integrato alle restanti risorse da usare, è la regolazione della distanza interpersonale, intesa come capacità di creare un giusto confine tra sé e gli altri.

Per approfondire questo aspetto poco trattato prenderemo come riferimento il testo di Maria Puliatti “La psicotraumatologia nella pratica clinica”, che in un capitolo approfondisce il tema; il libro è un riferimento particolarmente importante per chi voglia interessarsi al tema stabilizzazione perchè è totalmente incentrato su questo aspetto nel lavoro con adulti, bambini e adolescenti.

La questione della regolazione dell’attivazione attraverso il tema dei confini (che è quindi centrale se intendiamo il lavoro di stabilizzazione come una lavoro atto a “regolare” in modo più efficace il tono di attivazione o disattivazione neurofisiologico, per riportarlo all’interno della finestra di tolleranza), si presta a essere inserita nel tema più vasto della “psicoeducazione”.

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Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

Capitolo 2 - Introduzione alla Somatic Experiencing

JANINA FISHER – TRASFORMARE L’EREDITA’ DEL TRAUMA

Janina Fisher Trasformare eredità del trauma

JANINA FISHER – TRASFORMARE L’EREDITA’ DEL TRAUMA

Un manuale pratico per la vita quotidiana e per la terapia

 

di Cristiana Chiej e Camilla Marzocchi

 

In questo breve ma ricchissimo volume Janina Fisher, una delle più grandi esperte sul trauma a livello internazionale, condensa anni di lavoro e di studio sul trauma in una preziosa guida per terapeuti e pazienti. Focus della sua proposta non sono le memorie traumatiche ma l’eredità del trauma, appunto, ovvero il modo in cui il nostro corpo e il nostro cervello si sono adattati per sopravvivere al trauma: l’obiettivo non è gestire i ricordi, ma aiutare a guarire dagli effetti fisici, emotivi e cognitivi creati dal trauma.

Il volume è pensato come strumento da condividere in terapia fra pazienti e terapeuti, come guida e risorsa congiunta, in modo che i sopravvissuti al trauma possano diventare collaboratori attivi del processo di guarigione. Janina Fisher mette a disposizione, infatti, in queste pagine la sua grande esperienza e sensibilità, per aiutare i pazienti (e aiutare i terapeuti ad aiutarli) nel difficile cammino di risoluzione del trauma, imparando a conoscere degli effetti del trauma, ad attivare la loro curiosità sulle proprie emozioni e reazioni senza giudicarle, senza forzarli e anzi aumentando la loro padronanza di sé e del proprio percorso di guarigione.

La curiosità aperta e non giudicante è sicuramente l'attitudine più visibile nelle formazioni con Janina Fisher e il libro è completamente in linea con questa fondamentale apertura all'esperienza interna del paziente, così come del terapeuta: ingrediente fondamentale della terapia del trauma è anche il linguggio usato, che rende questo libro un solido alleato al complesso lavoro terapeutico. Molti pazienti che giungono in terapia da una lunga storia traumatica, hanno generalmente anche una lunga storia di sintomi che li ha accompagnati e che ha condizionato significativamente le loro relazioni e la loro vita quotidiana, sintomi che spesso diventano una vera e propria identità di “malato”, “matto”, “strano”, “sbagliato”, “emarginato”. E questo è il primo motivo per leggere questo libro: comprendere profondamente che quello che è accaduto è solo un'eredità che abbiamo ricevuto da esperienze avverse e che ci troviamo a dover gestire, maneggiare e risolvere.

La colpa e la vergogna sono le emozioni più comuni nei sopravvissuti a eventi traumatici, soprattutto quando avvengono nella primissima infanzia, poiché sono emozioni che offrono una spiegazione plausibile - sebbene dolorosa - agli eventi inspiegabili accaduti: “è successo a me perchè sono difettoso e non meritevole di amore”, “è accaduto a me perchè non sono stato capace di proteggermi”, “in fondo me la sono cercata”, “sono stato io a provocare la violenza”, “avrei dovuto prevedere gli eventi”, “sono così schifoso che non merito di vivere”..

Ecco perché il primo approccio a questo lavoro di cura deve tenere conto del fatto che le vittime di traumatizzazione cercano la terapia per eliminare i loro sintomi, ma non cercano sempre rassicurazione o conforto o salvezza, spesso anzi si ritengono completamente responsabili dei fatti che sono loro accaduti e una terapia che sia efficace dovrà aiutarli in questo primo cambio di prospettiva: leggere gli eventi e osservare il modo in cui il loro cervello e il loro corpo sono sopravvissuti e si sono adattati alle situazioni avverse, senza giudizi, senza interpretazioni, senza fretta di attribuire colpe e significati.

 

Guarire o sentirsi guariti inizia ad accadere nel momento in cui noi accettiamo e perdoniamo noi stessi- nel momento in cui noi vediamo quel piccolo bambino/a che eravamo, attraverso gli occhi dell'adulto che siamo diventati. Quel bambino e quella bambina credevano che la vergogna fosse la prova che fosse giusto biasimarli, che fossero difettosi e che non meritassero di essere amati: erano troppo giovani per sapere che la vergogna è semplicemente una risposta di sopravvivenza che ci aiuta a sottometterci quando siamo in trappola.”

 

I primi capitoli si concentrano sulla psicoeducazione di base e raccontano quello che le neuroscienze hanno scoperto negli ultimi decenni su cosa succede in un “cervello traumatizzato”, soprattutto in un'ottica di sopravvivenza, di azioni cioè e strategie necessarie per andare avanti in condizioni di emergenza. Seguono poi i capitoli più orientati alle strategie e alle tecniche per gestire la frammentazione interna, le difficoltà di regolazione delle emozioni, gli esiti di un attaccamento traumatico nelle relazioni, tutto attraverso la ricerca di un punto di osservazione nuovo: sviluppare un cervello capace di osservare.

Il capitolo V è sicuramente il cuore del libro e permette di iniziare ad avviare la trasformazione del paziente (e del terapeuta) verso una prospettiva psicotraumatologica condivisa. Spesso la colpa e la vergogna nelle vittime, sono indotte da credenze disfunzionali e culturali che in qualche modo giudicano la mancanza di riflessività o di capacità di compiere scelte adeguate come “mancanza di volontà”. MA quello che succede nel cervello è semplicemente che quando la corteccia prefrontale è spenta o disconnessa, le nostre capacità riflessive e decisionali sono temporaneamente sospese e inaccessibili.

Ecco perché la prima capacità da stimolare, attraverso la curiosià non giudicante è proprio questa: creare e mantenere l'accesso alla mente pensante, capace di osservare i fenomeni emotivi interni senza esserne travolti e senza giudicarli. La capacità della mente di osservare e restare presente nel lavoro terapeutico è elemento centrale per la sicurezza del lavoro sul trauma e al tempo stesso la chiave di accesso per elaborare e lasciar andare quello che dell'eredità del passato non ci serve più trattenere nel presente.

L'istinto innato della mente umana è quello di anticipare gli eventi, prevedere, interpretare e questo ci permette spesso di guadagnare tempo e raggiungere conclusioni e fare previsioni in modo più rapido. Tuttavia quando il cervello si abitua a funzionare in emergenza, le valutazioni che emergono possono risultare condizionate da questo, poco accurate o poco orientate al presente, e dunque rendere le previsioni erronee o incongrue rispetto alla situazione attuale. Ecco perchè è importante sviluppare l'attitudine a “notare” semplicemente quello che accade, senza fretta e senza pregiudizi, con la cura e la curiosità che dedicheremmo a qualcosa di nuovo da studiare e da comprendere, anche se l'oggetto della nostra attenzione sono le nostre emozioni, i nostri pensieri, e i nostri stessi comportamenti che ci riguardano molto da vicino ma cui spesso diamo significati scorretti.

Con la stessa cura invitiamo alla lettura di questo testo, la semplicità e la profondità che l'autrice offre sono percepibili nella lentezza di un auto-ascolto e di una auto-osservazione che lasci il tempo di capire e accedere ad un sé compassionevole e autenticamente aperto alla comprensione di noi stessi e del nostro modo di muoverci nel mondo.

 

Janina Fisher“… Continuate ad estendere la stessa compassione che offrireste a qualsiasi essere vulnerabile, fino a quando sentirete quel bambino/a dentro di voi rilassarsi, ammorbidirsi e sedersi più dritto. Sappiate sempre che quando il bambino o la bambina dentro di voi inizia a sentire il calore e la gentilezza della vostra accettazione e del vostro benvenuto, state finalmente iniziando a guarire l'eredità del vostro passato traumatico.”

Janina Fisher

 

Fisher, Janina “Trasformare l'eredità del trauma”, Ed. Mimesis 2021. Traduzione italiana a cura di Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini, dal Testo originale: Transforming the Living Legacy of Trauma: A Workbook for Survivors and Therapists by Janina Fisher, PESI Publishing & Media, 2020 (da https://janinafisher.com/resources)


 

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STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 2

Capitolo 2

Introduzione alla Somatic Experiencing®

di Alberto Dazzi

Foto cap 2

 

Somatic Experiencing® è un potente metodo psico-fisiologico per il trattamento e la prevenzione dei traumi sviluppato dal dott. Peter Levine.

Levine ha sviluppato, a partire dagli anni ’70, un metodo che offre strumenti estremamente efficaci per affrontare le esperienze traumatiche.

Somatic Experiencing® è basato sull'osservazione dei mammiferi selvatici che, sebbene abitualmente esposti a pericoli, raramente restano traumatizzati; meccanismi biologici innati di recupero permettono loro di tornare alla normalità dopo un'esperienza estremamente "forte" in cui è stata in pericolo la loro stessa vita. 

Per Levine, come del resto per altri clinici, i traumi sono esperienze che irrompono nel naturale processo di autoregolazione, processo che risiede nella fisiologia dell’istinto ed è guidato da strutture cerebrali primitive (il “cervello rettiliano”). Il trauma quindi viene definito non dall'evento che lo ha causato, ma dall’eccesso di attivazione nel cervello limbico e nei circuiti del tronco cerebrale. Per questo la reazione traumatica è considerata una reazione fisiologica del nostro Sistema Nervoso, non patologica.

I sintomi traumatici sono spesso i segnali di risposte neurofisiologiche di congelamento e di risposte incomplete di lotta e fuga. La risoluzione del trauma risiede soprattutto nel completare e scaricare questi processi fisiologici bloccati, piuttosto che nel ricordare o ripercorrere l’evento traumatico. In questo modo persone possono gradualmente elaborare l’esperienza traumatica e riconquistare una continuità e una connessione interna del Sé. S.E.® non promuove quindi la catarsi ma aiuta le persone a passare dalla frammentazione all’integrazione e favorisce lo sviluppo della capacità innata di autoregolazione del nostro Sistema Nervoso.

S.E.® lavora principalmente con il “felt sense” (la sensazione sentita) - accedendo a sensazioni corporee, immagini e schemi motori – e ci aiuta a comprendere la fisiologia del trauma e della sua guarigione e a riconoscere ed espandere le risorse interne ed esterne, come aiuto fondamentale per la guarigione.

Prima di lavorare con qualsiasi materiale traumatico, S.E.® stabilizza la persona in una condizione di sicurezza e radicamento, attraverso il contatto con le sue risorse (qualsiasi esperienza ci abbia aiutato a sopravvivere fisicamente, mentalmente od emozionalmente all’esperienza traumatica).

Qui di seguito proponiamo alcuni esercizi che possono aiutare, soprattutto se praticati frequentemente e con costanza, ad autoregolare il nostro Sistema nervoso, soprattutto in momenti dove non ci sentiamo ben radicati dentro noi stessi, un po’ confusi o iperattivati (ansiosi, agitati, ecc.).

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Introduzione

Capitolo 1 - Il ruolo essenziale dell'autocura nella fase di stabilizzazione

 

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Capitolo 1

Capitolo 1

IL RUOLO ESSENZIALE DELL'AUTOCURA NELLA FASE DI STABILIZZAZIONE

 di Viola Galleano, Cristiana Chiej

foto capitolo 1

 

Quando si parla di stabilizzazione non si può prescindere dall’introduzione di modalità sane per la cura di sé: le persone sopravvissute a contesti traumatici e di trascuratezza precoci, non hanno interiorizzato un modello di autocura, poiché non hanno sperimentato un buon accudimento da parte dei loro caregiver, non hanno vissuto l’esperienza di riconoscimento e validazione delle proprie esperienze interne, e dunque nemmeno di accoglienza e soddisfazione delle proprie necessità e bisogni.

Questi ultimi possono essere quindi considerati illegittimi ed essere ignorati, svalutati, nascosti o negati. Ciò porta ad una sorta di “incantesimo maligno”, come lo definisce Sandra Baita, in cui le condizioni traumatiche sembrano ripresentarsi ed essere nuovamente sperimentate nel presente. Le persone che non sentono legittime le proprie necessità, e a volte addirittura la propria esistenza, tendono a trascurarsi o a maltrattarsi proprio come lo sono state nella loro storia di vita.

L’introduzione e la promozione di atteggiamenti di cura rivolti al sé non è quindi solo un ripristino di criteri di giustizia umana, bensì un intervento volto ad interrompere la catena di trasmissione dei traumi dell’attaccamento.

Riguarda quindi il nucleo dell’intervento terapeutico: il rapporto della persona adulta con se stessa.

Prima di poter affrontare l’elaborazione dei ricordi traumatici, è necessario sviluppare e rinforzare la capacità di auto-accettazione e cura di sé, per interrompere il ciclo di traumatizzazione e favorire il passaggio dal “sopravvivere” al “vivere”, dal senso di minaccia per la propria integrità e disregolazione del sistema nervoso al concedersi tempo e spazio per la cura e il benessere personale.

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Introduzione

 

STABILIZZAZIONE - Navigare in sicurezza le onde del trauma - Premessa

PRESENTAZIONE DELL’EBOOK

di Camilla Marzocchi

intro immagine

 

 

PREMESSA

Sin dall'inizio della pandemia da Covid19 (marzo 2020) AISTED ha intensificato il suo lavoro di rete tramite i molti gruppi di lavoro che la compongono. I 2 Ebooks editati e pubblicati a partire da maggio 2020 (di cui questo è il secondo componente), sono la parte visibile e disponibile all'esterno di molto altro lavoro che la Associazione continua a fare, ogni giorno, tramite il confronto tra i quasi 200 specialisti di stress e trauma che la compongono.

Durante l'ultimo anno abbiamo navigato una realtà strana e completamente nuova, senza precedenti nel nostro tempo e senza nessun punto di riferimento. Durante tutto il 2020 abbiamo attraversato una fase acuta di stress caratterizzata da ansia, incertezza, minaccia e grande smarrimento, cui è seguito un graduale e curioso adattamento, una crescita post-traumatica che ci ha mostrato nuove risorse, opportunità, idee fino ad un graduale ritorno alla calma e alla sicurezza o almeno a quella che abbiamo pensato fosse tale. Poi in autunno di nuovo siamo entrati in una fase di stress acuto, più lungo e spaventoso del precedente, di nuovo costellato di paure, lutti, mancanza di prospettive e perdita (di nuovo!) di punti di riferimento e allora il nostro sistema emotivo ha iniziato a vacillare, ad accusare lo stress di tutti i mesi in cui abbiamo “tenuto insieme” noi stessi, le nostre famiglie e l'emergenza tutta  intorno.

In questa seconda fase emotiva, abbiamo perso la reattività traumatica che avevamo inizialmente e la mente ha lasciato spazio più spesso a stati di ipoattivazione e resa: la “pandemic fatigue”, la sindrome da rassegnazione, depressione, spesso nei più giovani un rifiuto del cibo, della socialità e un ritiro dalla vita. La mente umana è fatta per sopportare bene lo stress, anche quando acuto e persistente, anche quando il dolore fisico e emotivo appaiono insopportabili, ma abbiamo pur sempre dei limiti fisiologici, emotivi, somatici, mentali che è necessario conoscere e ri-conoscere per navigare al meglio le situazioni difficili. Sapere come alimentare, in una parola, la nostra personale Resilienza. L'adattamento post-traumatico è fatto per tutti noi di onde alte di grande attivazione, reattività, lotta e onde molto basse di disattivazione, spegnimento, resa. É importante sapere come atterrare dalle onde alte e come risalire da quelle basse, ma soprattutto è centrale per ognuno di noi trovare un modo da mantenerci sulla superficie del mare, surfando sulle onde mentre siamo saldi in equilibrio, senza opporci al movimento ma guardando sempre avanti. Da qui nascono i contributi di questo secondo E-book AISTED (qui è possibile consultare la prima Edizione), che speriamo possa raggiungere colleghi, operatori e cittadini in difficoltà, con l'obiettivo di offrire strumenti di riflessione ed esercizi pratici da seguire ogni giorno per mantenere, ora e per il futuro, un buon equipaggiamento utile a navigare al meglio in ogni momento, a partire da una maggiore consapevolezza di ciò che alimenta la nostra capacità di adattamento.

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Pat-factor e 25 Novembre: una riflessione sul nostro sguardo di terapeuti/e

Women Empowerement

Pat-factor e 25 Novembre:

una riflessione sul nostro sguardo di terapeuti/e

 

di Chiara Bellardi e Annalisa Di Luca

 

Eccoci di nuovo al 25 novembre, Giornata Internazionale per il contrasto alla Violenza sulle Donne.

Le donne rappresentano circa la metà della popolazione globale, ed è difficile quindi pensare si tratti di una minoranza da proteggere. Eppure il fenomeno della violenza alle donne appare molto significativo in tutte le parti del mondo e nel nostro paese anche in questo 2022 ha segnato irrimediabilmente una crescita del fenomeno.

Per contrastarlo da tempo appare necessario dare risposte articolate che affrontino la questione secondo un approccio integrato, capace di mettere in campo strategie e interventi di diversa natura.

Interventi di vario tipo, non limitati alla cura della vittima o all’inasprimento delle pene a carico dell’autore della violenza. La repressione è necessaria, ma da sola non basta. Oltretutto, la punizione – indubbiamente indispensabile, anche per l’effetto deterrente che può esercitare quando è dotata di efficacia e di effettività – in ogni caso interviene dopo che la violenza ha avuto luogo e deve essere affiancata da altre misure che abbiano la capacità di prevenire la violenza o comunque di snidarla prima che si manifesti in tutta la sua brutalità.

Realizzare interventi culturali e formativi vuol dire acquisire una maggiore sensibilità, una capacità di lettura e riconoscimento del problema, divulgare la cultura di genere, per combattere gli stereotipi, per educare i giovani al concetto di parità e pari opportunità.

E come operatori della salute mentale possiamo fare qualcosa? Ci sentiamo sempre capaci di riconoscere la violenza anche quando è un fenomeno intimo nell’individuo e nella coppia?

A questo proposito abbiamo pensato di intervistare una collega e socia AISTED, Chiara Bellardi, psicoterapeuta e psicotraumatologa, perché possa raccontarci la sua esperienza di donna e professionista pat-informed, ovvero, teoricamente consapevole dell’impatto della cultura patriarcale.

L’abbiamo intervistata per parlarci della fatica a riconoscere alcune insidie culturali generatrici di ritardi nell’acquisizione di prospettive più equilibrate, insidie che sono espressione evidente delle resistenze e della difficoltà di evoluzione nel nostro Paese. Un immaginario patriarcale che può rappresentare ancora oggi la radice delle asimmetrie tra i sessi e, di conseguenza, della violenza di genere.

Quell’immaginario patriarcale non è più presente nelle leggi, nei codici e nella giurisprudenza, ma ha lasciato segni profondi ed evidentemente continua a sopravvivere nei comportamenti di molti uomini e in modo insidioso e inconsapevole anche delle donne.

 

Ecco l’intervista

So che partecipi a questo gruppo di ricerca/ confronto: in cosa consiste?

Nell’autunno del 2021, in seguito al convegno SITCC intitolato Le sfide del Cognitivismo nel Terzo Millennio, assieme ad altre colleghe che hanno portato contributi riconducibili al patriarcato o che sono impegnate a vario titolo sul tema, abbiamo iniziato a trovarci regolarmente ed informalmente per riflettere sullo stato dell’arte in termini di consapevolezza del fenomeno del patriarcato in ambito psicologico e psicoterapeutico. Il nome del gruppo Genera17, emblematizzato dal numero 17, oggetto di stigma per antonomasia, indica l’approccio generativo e di apertura dello stesso, volto ad ampliare le prospettive ed andare oltre la parzialità dei pre-giudizi in senso lato.

 

Perché parlare di "patriarcato" può essere importante per un terapeuta o operatore sanitario?

Siegel e Payne Bryson nel loro libro 12 Strategie per favorire lo sviluppo mentale del tuo bambino ci parlano dell’importanza del “nominare per dominare” al fine di promuovere il cambiamento degli stati mentali. Veniamo da duemila anni di narrazioni gender-based e iniziare ad approfondire la questione potrebbe essere di aiuto per avere una visione più oggettiva della situazione. Basta pensare anche solo ai numeri. Le donne sono metà parte del mondo. Spesso le psicoterapeute sono donne, spesso gli autori in letteratura psicologica sono uomini e di sovente si parla “delle pazienti”. Parlare di minoranza artificiosa, come viene tecnicamente definita quella delle donne, o di impatto del patriarcato per le professionalità sanitarie può essere utile per ampliare le griglie ermeneutiche, ovvero le lenti di lettura, con le quali ci approcciamo alla nostra professione e alle persone che abbiamo di fronte nella nostra quotidianità lavorativa e non solo.

 

Le persone vittime di violenza vivono spesso con vergogna e senso di colpa i fatti accaduti, e queste emozioni sembra attingano forza e “ragione” dal vissuto di esclusione versus appartenenza alla collettività. Nella tua esperienza che impatto hanno i Pat-factor su una persona traumatizzata e perché può entrarci con gli aspetti post-traumatici e con la dissociazione?

Io non ho risposte definitive, ma posso condividere il fatto che nell’attività clinica sono sempre stata aiutata dalla possibilità di poter attingere a una formulazione del caso che restituisca alla persona un’immagine del proprio funzionamento il più possibile integrata, nella quale potersi riconoscere sia in termini di limiti che di risorse. Per esempio, ho fatto questa esperienza di arricchimento del mio bagaglio di formulazioni del caso, utilizzando il costrutto del Disturbo da Stress Post traumatico Complesso, che permette di cogliere non solo negli eventi traumatici ma in uno sviluppo traumatico nell'infanzia le radici della sofferenza della persona nel presente. Per questo motivo mi domando come sarebbe se avessimo a disposizione anche formulazioni che tengano conto di come duemila anni di narrazioni gender-based possano avere avuto un impatto sia nel modo di descrivere la psicopatologia che nel modo di proporre interventi. I filosofi della scienza ci hanno insegnato che la scienza procede per falsificazioni di ipotesi e cambi di paradigma. Quindi mi domando perché non si possa tentare di approfondire la questione anche in sede di salute mentale, così come in parte si è fatto (vedasi, tra gli altri, il lavoro della psicologa statunitense Carol Gilligan, autrice del libro Con voce di donna) o come si sta tentando di fare da tempo in altre discipline quali la linguistica (Alma Sabatini), la filosofia del diritto (Joan Tronto) e la revisione della storia dell’uomo primitivo. Per tornare alla domanda, penso che ogni professionista opportunamente formata/o sia in grado di riconoscere franche esperienze traumatiche (es. violenza domestica), ma non so quanto si sia in grado oggi di riconoscere i fattori di mantenimento della eventuale traumatizzazione, che spesso impediscono il cambiamento e l’utilizzo di strategie più funzionali di comportamento.

 

In occasione della giornata contro la violenza sulle donne, perché ritieni significativo parlare di questo e cosa ritieni importante che rimanga in noi professionisti e non solo?

Venendo oggettivamente da almeno duemila anni di narrazioni gender-based, penso sarebbe utile andare oltre il derubricare certe situazioni in termini di bias culturali. Penso potrebbe essere proficuo iniziare a rileggere i casi attraverso le lenti del patriarcato e notare se esistono co-occorrenze in termini di schemi, credenze, reazioni automatiche di difesa, difficoltà nell’esprimere le emozioni, difficoltà nel gestire specifiche espressioni emotive piuttosto che altre, comportamenti passivi o aggressivi, somatizzazioni, silenzi, mutismi selettivi.

In primis penso sarebbe molto utile interrogarci rispetto agli schemi, agli archetipi, alle aspettative che abbiamo noi professioniste e professionisti della salute mentale, innanzi tutto in termini linguistici e di considerazione del lavoro di cura, spesso appannaggio del cosiddetto “secondo sesso”, per citare l’autrice femminista Simone de Beauvoir. Per esempio, ritengo sia utile pensare alla discrepanza che spesso si incontra nelle professioniste e nei professionisti tra l’essere al corrente del potere del logos, del potere performativo delle parole, del politically-correct e le reazioni infastidite rispetto alle desinenze in -a, agli asterischi e alle shva, ovvero la desinenza inclusiva (ə) che ancora non si trova in tutti i programmi di videoscrittura. Da dove arriva tutto questo fastidio? Quando ci troviamo di fronte a casi di soggetti in età evolutiva con problematiche, o alle cosiddette famiglie problematiche, penso sia altresì importante interrogarci sull’impatto del lavoro di cura all’interno del nucleo familiare sia esso coerente o incoerente con lo stereotipo e alle possibili conseguenze. In estrema sintesi, penso sia molto importante interrogarci sul nostro livello di patriarcato interiore, o meglio interiorizzato in modo implicito attraverso l'esperienza cognitiva-emotiva-e-somatica, soprattutto se siamo donne, perché da sempre questo costituisce, a mio avviso, la forma di patriarcato più insidiosa.

Visti i millenni di narrazioni di un certo tipo e i secoli di talking-cure, penso sia altresì importante esplorare sempre di più tutti gli interventi svincolati dalla parola e più legati al corpo che potrebbe costituire un grande alleato sia in termini di descrizione del malessere che di possibile intervento.

In conclusione, penso che fare una revisione della nostra situazione di “gettattezza”, ovvero, il trovarsi a nascere in un determinato corpo e in una determinata cultura potrebbe aiutarci a con-siderare i fenomeni ( e la violenza in primis) da una prospettiva più ampia. Ritengo che tentare di enucleare e nominare i Pat-factor potrebbe arricchire la nostra cassetta degli attrezzi, aiutando ad esplicitare certi fenomeni ed eventualmente a diminuire il numero delle Cadute del 25 Novembre.

 

Bibliografia:

 

  • AA.VV., (2017), Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini, Blonk Editore.

  • Demurtas P., Misiti M., (2021), La violenza contro le donne in Italia, Guerini scientifica.

  • Gilligan C., (1991), Con voce di donna, Feltrinelli.

  • Sabatini A., Il sessismo nella lingua italiana. Istituto poligrafico e zecca dello stato, Roma, 1987.

  • Siegel D., Payne Bryson T., (2012), 12 Strategie rivoluzionarie per lo sviluppo mentale del bambino, Raffaello Cortina Editore.

  • Pathou-Mathis M, (2021), La preistoria è donna. Una storia dell’invisibilità delle donne. Giunti editore.

  • Romito P., (2011), La violenza di genere su donne e minori, Franco Angeli.

  • Sassaroli et al., (2015), Autonomy and Submissiveness as cognitive and cultural factors influencing eating disorders in Italy and Sweden. Europe’s Journal of Psychology.

  • Tronto J., (2006) Confini morali, Diabasis.

  • Volpato C., (2019), Le radici psicologiche della disuguaglianza, Laterza.


 

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Too much of Nothing: le ferite della trascuratezza e i diritti di ogni bambino, 20 Novembre 2022

20 Novembre 22

Too much of Nothing:

le ferite della trascuratezza e i diritti di ogni bambino

di Camilla Marzocchi

 

da “Working with the Developmental Trauma of Childhood Neglect”

di Ruth Cohn (Routledge, 2022)

 

20 nov – La Giornata mondiale dell’Infanzia è stata istituita per la prima volta nel 1954 come Giornata universale del bambino e viene celebrata il 20 novembre di ogni anno per promuovere la solidarietà internazionale, la sensibilizzazione dei bambini in tutto il mondo e il miglioramento del loro benessere.

Il 20 novembre è una data importante anche perché nel 1959 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Dichiarazione dei Diritti del Bambino. Trent’anni più tardi, nel 1989, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti del fanciullo.

Come Associazione AISTED siamo profondamente connessi a questa giornata, che esprime un obiettivo centrale per tutti noi che lavoriamo sugli effetti del trauma e della dissociazione sulla popolazione: l'importanza di occuparci della radice della vita umana, l'infanzia, come fattore preventivo e predittivo per lo sviluppo emotivo di ogni adulto che abiterà il mondo e di ogni paziente che busserà alla nostra porta.

I segni della traumatizzazione cronica, della trascuratezza e della violenza infantile hanno un'onda lunga nella nostra società, ne abbiamo prove neuroscientifiche inconfutabili da decenni e siamo (dovremmo) essere più preparati a coglierne i segni a tutti i livelli dello sviluppo: nei bambini, negli adulti, nelle nostre comunità di appartenenza.

Il ciclo della violenza tende a ripetersi tra le generazioni e si nutre di molte variabili, di cui la più importante è la cecità nel coglierne le condizioni che la favoriscono e la alimentano.

Dall'esperienza clinica è spesso molto evidente, ma non sempre facile da cogliere: non c'è abuso e violenza senza una profonda trascuratezza che ne crei le condizioni. Non c'è evento avverso o trauma che non nasca dall'aver ricevuto poca o nulla attenzione, cura, supporto. La trascuratezza emotiva crea dunque la condizione di rischio più determinante, non solo perché le violenze e gli abusi avvengano, ma soprattutto perché continuino ad essere reiterati senza alcun monitoraggio, causando una traumatizzazione cronica estremamente più difficile da riparare e curare nell'adulto.

Ogni bambino sarebbe più al sicuro, tra adulti capaci di riconoscerne i segnali di stress, dolore, paura. Ogni adulto della sua vita è importante per cambiare la traiettoria del suo sviluppo: genitori, familiari, sanitari, insegnanti, educatori, vicini di casa, i servizi, la comunità tutta.

Un proverbio africano recita: “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio.

A questo proposito, il libro di Ruth Cohn offre una lettura sensibile e profonda, utile a cogliere questi segnali di trascuratezza, spesso nascosti per effetto stesso della trascuratezza ricevuta: l'abitudine ad essere invisibili.

Ogni bambino trascurato (e l'adulto che sarà) non saprà leggere in modo efficace le proprie emozioni, i propri bisogni e i propri desideri, ma soprattutto non saprà riconoscere e difendere in modo chiaro e inequivocabile i propri diritti nel mondo, i diritti di nascita e dunque il suo stesso valore come essere umano.

 

La prima regola del mondo

L'esperienza primaria di attaccamento in questi bambini è spesso il fallimento del rispecchiamento emotivo (mirroring), sin dai primissimi momenti di vita.

Un sguardo amorevole, sintonizzato e capace di rispondere in modo flessibile, costante ed efficiente ai bisogni fisici, emotivi e di sopravvivenza. Il contatto oculare è perciò la prima fonte di “salvezza” che abbiamo, la prima condizione che ci garantisce la vita, dunque l'assenza di questo sguardo crea un istantaneo e precoce stato di allarme che non possiamo in nessun modo affrontare. Ecco la primissima esperienza emotiva, fisiologica, interna di “non meritare attenzioni”, in una fase in cui ne avremmo pienissimo e totale diritto per sentirci vivi.Tali esperienze, quando non vengono mai riparate, creano un'immediata risposta fisiologica: il rifiuto è la prima regola del mondo e diventa parte integrante del funzionamento di base di quell'individuo, quello cioè che si aspetterà da ogni futura esperienza di relazione.

Segnali e marcatori cui prestare attenzione

La fiducia in se stessi non è in questi casi una scelta, ma l'unica opzione, un meccanismo di sopravvivenza contro la disperazione della solitudine e diventa per questo un motivo di orgoglio per se stessi. Ecco il primo segnale di trascuratezza: bambini eccessivamente capaci di badare a loro stessi, particolarmente fieri di gestire autonomomente bisogni primari della loro vita, spiccatamente capaci di cogliere i bisogni degli adulti intorno a loro e di occuparsene attivamente, ogni giorno. La fatica soverchiante di fare questo, viene compensata da sentimenti estremi di orgoglio nell'adulto del futuro, che sarà incline all'autosufficienza “feroce”, a disconoscere i propri bisogni interpersonali e che faticherà a chiedere aiuto se non in casi estremi di malessere. Un genitore in difficoltà e sopraffatto, come farà a chiedere aiuto se è stato a sua volta trascurato? Un bambino iper-responsabile genererà abbastanza preoccupazione e allarme?

Per un bambino ed un adulto tenacemente autonomi e indipendenti, il dovere sarà un elemento centrale, mentre potrebbe essere difficile per esempio rispondere a domande dirette sulle proprie emozioni, preferenze, bisogni, desideri. Per qualcuno addirittura spiacevole o soverchiante: è possibile però riconoscere nei “tempi lenti” di risposta e nel “ritmo interrotto” di un dialogo intimo e personale, un secondo segnale di trascuratezza nell'infanzia. A partire dall'idea del fallimento primario del rispecchiamento emotivo, c'è una ragione fisiologica che ci spiega questo: l'interruzione della comunicazione tra cervello-destro del caregiver e cervello-destro del bambino rende questi bambini sotto-stimolati nell'emisfero destro che più dovrebbe invece permettere di accedere all'esperienza emotiva e soggettiva (Schore, 2016). Il risultato esterno e visibile, nel bambino e nell'adulto, è una maggiore lentezza, indecisione, titubanza e talora blocco nel rispondere alle domande personali, poiché accedere a questo flusso di informazioni su di sé è stato poco sviluppato, o inutile o addirittura rischioso. E' molto facile che questo venga etichettato come timidezza, chiusura, disinteresse, se non c'è la curiosità di approfondire questo segnale, dando lo spazio e i tempi “giusti” per esprimersi resterà solo l'etichetta, privata della sua storia.

Direttamente collegato a questo tratto, la totale assenza - nel bambino e poi nell'adulto - di un vocabolario emotivo di base (alessitimia) è un terzo segnale che ci deve incuriosire. Spesso questa difficoltà estrema viene nascosta da una risposta stereotipata, rapida e automatica ad ogni domanda che riguardi il proprio mondo interno: “Non lo so!”Essere soli con le proprie emozioni, soprattutto se soverchianti come la paura e il terrore, comporta lo sviluppo di un meccanismo di distacco cronico da esse e genera l'impossibilità di verbalizzarle. Come potrebbe verbalizzare di essere spaventato o in pericolo, un bambino che non conosce le parole per esprimerlo?

Spesso la forma del neglect assume invece forme positive, ma altrettanto importanti da cogliere in un bambino o in un adulto che ci chiede aiuto: una storia della propria infanzia completamente idilliaca, perfetta, priva di qualunque sfumatura negativa, costellata esclusivamente di ricordi felici, di serenità e amore (quarto segnale). Soprattutto se questa narrazione viene accompagnata - nel bambino come nell'adulto - da difficoltà manifeste nel dare fiducia agli altri o nel chiedere aiuto, elevata auto-critica, difficoltà nel prendersi cura di sé, dovrebbe incuriosirci anziché affascinarci. Il contatto con l'idealizzazione può essere contagioso, ma di fronte ad una richiesta di aiuto è importante coltivare il dubbio: come mai l'esperienza di così tante risorse positive, non ha portato a sviluppare un'adeguata sicurezza e piena fiducia nel mondo e negli altri?

E infine, quando fallisce cronicamente l'esperienza di ricevere aiuto e supporto, di essere guidati e protetti, di essere accompagnati e non soli nelle sfide della vita, il bambino e poi l'adulto non penseranno più che avere bisogni interpersonali sia naturale e inevitabile per la nostra specie. Al contrario “So tutto quello che mi serve sapere”, sempre e in ogni circostanza, diventa allora un quinto segnale importante da cogliere: l'acuta capacità di analisi sviluppata in assenza di qualunque tipo di supporto e guida, diventa una zattera per non andare alla deriva e porta spesso a costruire un complesso e personale sistema di valori, manchevole però di informazioni adattive di base e di un efficace confronto con la realtà esterna. Chi avrebbe voglia di dialogare con un bambino o con un adulto che sa sempre tutto e che ha sempre la risposta pronta per ogni cosa? Di nuovo è importante osservare questi segnali ed esserne curiosi, senza giudizio e con sguardo attento.

Spesso approfondire con compassione, empatia o aperta curiosità questi segnali potrebbe aiutare a intercettare quello che si nasconde appena dietro la loro forma esterna: un mondo di solitudine e una profonda mancanza di senso verso le più semplici esperienze della vita, in cui nonostante le difese attivate per sopravvivere, i pensieri e i dubbi su di sé prendono piede ogni giorno. “Chi sono?”, “Vado bene?”, “Sto facendo abbastanza?”: la primissima sensazione di rifiuto, continua a fare eco nell'adulto, così come i dubbi costanti sulla proprio diritto di essere nel mondo e di esserci con dei bisogni e delle domande fondamentali cui gli altri ci devono aiutare a rispondere (sesto segnale). Molto importante cogliere in questa ruminazione ricorsiva dell'adulto, l'isolamento del bambino che è stato.

L'invito di Ruth Cohn è di leggere tra le righe, con sensibilità e coraggio, restando focalizzati nell'esperienza presente e incarnata dei racconti, oltre le parole, ponendo al centro e umilmente le nostre impressioni, esperienze di vita e storie personali per sintonizzarci con questi segnali che altrimenti resteranno inascoltati, perché sono semplicemente nati a questo scopo: garantirsi la protezione dell'invisibilità.

 

Note bibliografiche:

Cohn Ruth, Working with the Developmental Trauma of Childhood Neglect. Using Psychotherapy and Attacchment Theory Techniques in Clinical Practice. Routledge, 2022.

Schore Allan, Affect Regulation and the Origin of the Self: the Neurobiology of Emotional Development. New York, Routledge, 2016.

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Buone Vacanze E Prossimi Appuntamenti!

Buone Vacanze 2022 - Prossimi Appuntamenti

Carissim* soc*,

nel ringraziarvi per la vostra partecipazione agli incontri e alle occasioni associative di questo intenso 2022, vi auguriamo di trascorrere delle serene vacanze e anticipiamo qui qualche informazione sulla ripresa di settembre con Prossimi Eventi Patrocinati e Gruppi di lavoro!

 

Prossimi Eventi e Corsi Patrocinati

 

Gruppi di lavoro: Save the date!

  • Gruppo Forense Venerdì 23 settembre ore 20.30 

  • Gruppo Infanzia Adolescenza Domenica 2 Ottobre 2022 ore 17,00-19,00 

  • Gruppo Web/Comunicazione 6 Ottobre, 8 Novembre, 15 Dicembre ore 21,00

  • Gruppo Ricerca Giovedì 20 Ottobre alle 20,30 e Laboratorio DBR (Deep Brain Re-orienting) alle 21,30

Violenza assistita: una ricerca osservazionale in Pronto Soccorso pediatrico

Caleb-Woods-unsplash

La prevalenza dei bambini che riportano violenza assistita

in un pronto soccorso pediatrico

Prevalence of children witnessed violence

in a pediatric emergency department

di Federica Anastasia,1 Luisa Cortellazzo Wiel,corresponding author1 Manuela Giangreco,2 Giuliana Morabito,3 Patrizia Romito,1 Alessandro Amaddeo,2 Egidio Barbi,1,2 and Claudio Germani2

1University of Trieste, Piazzale Europa 1, 34127 Trieste, Italy
2Institute for Maternal and Child Health – IRCCS Burlo Garofolo, Trieste, Italy
3Santa Maria Degli Angeli Hospital, Pordenone, Italy

 

Pubblichiamo e diffondiamo i risultati di una interessante ricerca condotta dalla collega e socia AISTED Federica Anastasia, e  pubblicata lo scorso 19 Aprile sullo European Journal of Pediatrics, grazie al gruppo di ricerca dell'Università di Trieste e in collaborazione con l'IRCCS Burlo Garofalo e l'Ospedale di Santa Maria degli Angeli di Pordenone.  I dati che ci colpiscono come Associazione coinvolta nel trattamento di disturbi trauma correlati, soprattutto quando esitano da esposizione a traumatizzazione cronica durante l'infanzia, riguardano i numeri altissimi di prevalenza di violenza assistita in famiglia in cui il 43% delle donne intervistate hanno riportato esperienze di violenza domestica e abusi in famiglia e in cui i figli delle donne vittime di violenza mostrano segnali chiari di alterazione dello stato psicologico ed emotivo (38,7%) e disturbi del sonno (26,9%). Se pensiamo ai due anni passati e all'isolamento vissuto dalle famiglie, spaventa l'idea di quanti bambini possano aver vissuto la loro casa come una trappola, priva di elementi di sicurezza all'interno e in un mondo esterno in emergenza che non ha potuto monitorare, né intervenire in situazioni di pericolo o allarme prolungate. La conoscenza neuroscientifica ci ha ormai insegnato che vivere uno stato di emergenza prolungato, in una fase di sviluppo precoce, può danneggiare in modo grave lo sviluppo emotivo del bambino e condizionare in modo profondo la sua traiettoria di sviluppo e la sua vita come adulto. Perciò questi dati riguardano tutti noi e il futuro della nostra società, perché non mettere luce sull'impatto della violenza intrafamiliare, significherà in futuro non saper leggere, né intervenire sulla sofferenza psicologica che le famiglie e i bambini in primis, e gli adolescenti e adulti poi, porteranno alla nostra attenzione di clinici nei prossimi mesi e anni. La psicopatologia che emergerà da queste esperienze traumatiche prolungate, esacerbate dalla pandemia, necessiterà invece di una osservazione puntuale e di interventi mirati trauma-informed, che aiutino a collegare i sintomi che emergeranno anche a distanza di molto tempo a queste esperienze traumatiche e precoci vissute in famiglia. Le esperienza di paura prolungate e "senza sbocco" come quelle vissute in casa, possono più di ogni altra esperienza causare sintomi dissociativi e malessere significativo proprio per la qualità dell'esperienza in sé: se il luogo deputato a offrire sicurezza e protezione diventa invece luogo di pericolo e di minaccia, la possibilità di ripristinare nella mente e nel cervello uno stato di calma e sicurezza può arrivare, insieme ai sintomi, dopo molti anni dall'inizio della violenza.

 

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Abstract: 

"La violenza assistita è una forma di abuso sui minori con effetti dannosi sul benessere e sullo sviluppo del bambino, il cui riconoscimento si basa sulla valutazione dell'esposizione della madre alla violenza del partner intimo (IPV). Lo scopo di questo studio era di valutare la frequenza della violenza assistita in una popolazione di bambini ricoverati in un Pronto Soccorso Pediatrico (ED) in Italia, ricercando l'IPV nella madre, e di definire le caratteristiche delle diadi madre-bambino. Uno studio trasversale osservazionale è stato condotto da febbraio 2020 a gennaio 2021. Alle madri partecipanti è stato fornito un questionario, che includeva lo strumento di screening degli abusi sulle donne (WAST) e ulteriori domande sui dati di riferimento e sulla salute. L'analisi descrittiva è stata riportata come frequenza e percentuale per le variabili categoriali e mediana e interquartile range (IQR) per le variabili quantitative. Le madri e i bambini risultati positivi e negativi allo screening per IPV e testimoni di violenza, rispettivamente, sono stati confrontati dal test del chi quadrato o dal test esatto di Fisher per le variabili categoriali e dal test di Wilcoxon-Mann-Whitney per le variabili continue. Su 212 madri partecipanti, novantatré (43,9%) hanno mostrato un WAST positivo. Le madri risultate positive erano principalmente italiane (71%, p 0,003), avevano un livello di istruzione più basso (età media all'abbandono scolastico 19, p 0,0002) e una maggiore frequenza di disoccupazione (p 0,001) e uno stato di salute personale precario (8,6% , p 0,001). I figli delle madri risultate positive hanno mostrato una maggiore incidenza di stato psicologico-emotivo anormale (38,7%, p 0,002) e disturbi del sonno (26,9%, p 0,04)."

 

Introduzione: 

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), gli abusi sui minori sono tra i principali problemi di salute pubblica a livello mondiale, rappresentano una delle principali cause di morte dei bambini nei paesi ad alto reddito e si stima che siano ampiamente sottovalutati [1]. Le sue conseguenze sul benessere del bambino possono essere sia dirette (vale a dire lesioni fisiche o morte [2]) che indirette, esponendo il bambino a un rischio maggiore di sviluppare disturbi psicologici, comportamentali, sociali e medici [3].

La violenza assistita è una forma di abuso sui minori, consistente nell'esperienza del minore di qualsiasi tipo di maltrattamento nei confronti dei suoi genitori/tutori/familiari e può essere diretta (se il maltrattamento avviene in presenza del minore) o indiretta (se il bambino è consapevole del maltrattamento e ne percepisce gli effetti acuti/cronici, fisici/psicologici).

Il riconoscimento dei bambini vittime di violenza richiede la valutazione preventiva dell'esposizione delle loro madri alla violenza del partner intimo (IPV), definita dall'OMS come un "comportamento all'interno di una relazione intima che provoca danni fisici, sessuali o psicologici, inclusi atti di aggressione fisica , coercizione sessuale, abuso psicologico e comportamenti di controllo” commessi da un partner attuale o precedente [4]. Secondo i rapporti dell'OMS, una donna su tre è sottoposta a IPV ed è stato stimato che tra i bambini che vivono in famiglie in cui si verifica l'IPV, l'85% è testimone diretto di violenza e fino alla metà subisce forme dirette di abuso, principalmente dal padre o da qualsiasi altro membro maschio della famiglia [5]. Un'indagine europea ha mostrato che il 19% delle donne italiane subisce abusi fisici o sessuali dal proprio partner e che il 38% subisce ripetuti maltrattamenti psicologici [6]; tra le donne maltrattate, il 65% rivela che i propri figli hanno assistito a uno o più episodi di violenza [7].

L'esposizione all'IPV non solo ha effetti deleteri sul benessere del bambino e sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo [8], ma influisce negativamente anche sui comportamenti e le relazioni nell'età adulta: ragazzi e ragazze che subiscono violenza domestica contro la madre sono maggiormente a rischio di perpetuare comportamenti aggressivi ed essere vittime di violenza domestica più avanti nella propria vita, rispettivamente, impegnandosi nella cosiddetta perpetuazione intergenerazionale della violenza [9].

Sebbene l'OMS attualmente raccomandi lo screening per l'IPV durante la gravidanza [10], non esiste alcun accordo sull'adeguatezza delle valutazioni di routine dell'IPV postpartum. Tuttavia, sulla base degli effetti dannosi dell'IPV sui bambini, l'American Academy of Pediatrics ha sostenuto lo screening dell'IPV in ambito pediatrico, approvando l'abuso delle donne come un problema pediatrico [11].

Gli operatori sanitari sono generalmente in una posizione privilegiata per indagare sull'IPV; il pronto soccorso (DE) rappresenta un ambiente ideale per rilevare abusi e intraprendere azioni contro di essi [12]. Studi sulla salute delle donne hanno dimostrato che le vittime di violenza domestica si rivolgono più spesso al medico in strutture di pronto soccorso rispetto agli appuntamenti programmati con gli operatori sanitari, a causa delle preoccupazioni relative al rinvio ai servizi sociali e/o perché incapaci di negoziare con l'aggressore qualsiasi altra forma di accesso a strutture sanitarie per sé e per i propri figli [13]. Il PS pediatrico, dove le madri cercano l'attenzione con i propri figli spesso in assenza del partner, offre un'opportunità unica per coinvolgere le diadi madre-bambino in indagini di ricerca, in conformità con le linee guida internazionali sulla ricerca sulla violenza contro le donne e i bambini [14] , 15]. Finora solo due studi hanno indagato l'IPV in ambito pediatrico, trovando una prevalenza che varia dall'11 [16] al 52% [17].

Lo scopo di questo studio era di valutare l'incidenza della violenza assistita in una popolazione di bambini che frequentano un PS pediatrico, indagando la prevalenza dell'esposizione all'IPV tra le loro madri e di definire le caratteristiche demografiche e cliniche delle diadi madre-bambino. ....CONTINUA A LEGGERE QUI!

 

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Come Associazione AISTED sosteniamo e promuoviamo l'importanza di sensibilizzare gli operatori sanitari alle linee guida trauma-infomed, perché diventino un osservatorio prezioso nell'intercettare, segnalare e indirizzare al servizi competenti le situazioni di criticità che possono giungere nei servizi di Pronto Soccorso e nei reparti di emergenza pediatrica.

 

Anastasia, Federica et al. “Prevalence of children witnessed violence in a pediatric emergency department.” European journal of pediatrics, 1–9. 19 Apr. 2022, doi:10.1007/s00431-022-04474-z