Il lavoro con le Parti: di cosa parliamo? Quando serve?

Che cosa sono le parti dissociative e come o quando introdurre il linguaggio delle “parti”?

di Cristiana Chiej

Dall’articolo di Dolores Mosquera pubblicato nella Newsletter ESTD, volume 10, numero 3, Dicembre 2020

 

Chi lavora con storie di pazienti con trauma complesso sa che questo implica il doversi continuamente confrontare con le parti dissociative e le sfide che ne derivano, incluso l’utilizzo appropriato del linguaggio delle parti.

In questo interessante articolo Dolores Mosquera dà risposta alle domande che più frequentemente emergono su questo tema fondamentale e delicato, accompagnandoci in una riflessione proprio sulle parti dissociative e sul modo in cui è opportuno parlarne in seduta con i pazienti.

 

  • Che cosa sono le parti dissociative?

Questi pazienti non sperimentano un senso di sé unitario: l’esperienza del non-me è l’essenza del disturbo dissociativo. Le parti dissociative spesso hanno una loro distinta prospettiva in prima persona, un loro distinto senso d’identità, che emerge nel modo in cui i pazienti parlano della loro esperienza interna, come se appartenesse a qualcun altro. Questa mancanza di personificazione è testimoniata dall’uso frequente della terza persona per descrivere ciò che sentono, vedono o notano rispetto alle parti dissociative, come fossero persone diverse.

Certamente non tutte le parti hanno un senso d’identità così distinto: le parti emotive bloccate al tempo del trauma, ad esempio, non hanno una loro memoria autobiografica né una distinta prospettiva in prima persona, ma vengono comunque percepite dai pazienti come estranee, poiché non riescono a controllarle e sentono che queste parti agiscono in modo autonomo. Queste parti non sono orientate nel tempo né consapevoli della realtà presente, e per questo motivo è così difficile lavorare con loro.

 

  • Come distinguere le parti dissociative dagli stati dell’io?

Gli stati dell’io sono diversi dalle parti dissociative perché non vengono percepiti come estranei, hanno confini più permeabili e non vi è amnesia né un’autobiografia separata. Permangono un senso di sé unitario al di là delle singole rappresentazioni mentali,

la prospettiva in prima persona ed un senso di appartenenza alla persona nella sua interezza.

In alcuni casi di trauma complesso o disturbi dissociativi è possibile trovare stati dell’io con confini meno permeabili e una certa amnesia rispetto al passato, ma non rispetto al presente. Il paziente sa che sono parti di sé, ma non le sente come tali. Secondo Mosquera possono essere concepite come sulla linea di confine fra stati dell’io e parti dissociative, ma in questo caso non c’è l’evitamento fobico che si trova invece nelle parti dissociative più autonome ed elaborate.

L’autrice fa notare come anche il linguaggio usato dal paziente testimoni la differenza fra stati dell’io e parti dissociative: nel caso di stati dell’io, infatti, il linguaggio è più spesso metaforico e riflette una prospettiva in prima persona e un senso di appartenenza che mancano invece alle parti dissociative.

 

  • Quando e quando non usare il linguaggio delle “parti”?

In generale, secondo l’autrice, il modo in cui parla il paziente aiuta a capire se sia opportuno o meno usare il linguaggio delle 

parti. Parlare di parti può aiutare la persona a mantenere una distanza fra sé e un comportamento o un vissuto che non riconosce come proprio, non comprende o non gli piace. Ma non per tutti è così. La proposta è dunque di adeguare il proprio linguaggio, parlando esplicitamente di parti se il paziente sembra essere a proprio agio nel farlo ed evitandolo quando mostra disagio. Con, tuttavia, un’eccezione: quando l’uso del linguaggio delle parti rappresenta un modo per il paziente di non assumersi la responsabilità di un proprio comportamento. In alcuni casi, inoltre, i pazienti parlano delle loro parti come fossero persone diverse dentro di loro, attribuendo loro un’autonomia eccessiva. In queste circostanze, il suggerimento è di affiancare il nostro linguaggio delle parti al linguaggio usato dal paziente, tenendoli entrambi, come a creare un ponte.

 

  • Come lavorare con o parlare delle “parti” quando i pazienti non si sentono a loro agio nel riconoscere di avere delle parti?

Non sempre, infatti, i pazienti riconoscono facilmente di avere delle parti e sono disposti a parlarne in modo esplicito. Mosquera dà un utile suggerimento per uscire da questa difficoltà: esplorare l’esperienza interna del paziente insieme a lui, indagando l’eventuale presenza di conflitti interni o la difficoltà ad esprimere ad altre persone ciò che loro vivono. Il modo in cui i pazienti parlano, le parole che usano, aiutano il terapeuta a capire come vivono il loro mondo interno. E’ importante ricordare che alcuni termini, come “personalità” o “persone interne”, aumentano il senso di separatezza fra le parti, mentre altri, come ad esempio il termine “aspetti”, la sminuiscono, non rendendo conto del fatto che nelle parti vi sia una propria prospettiva in prima persona.

In conclusione, ciò che sottolinea l’autrice, è  l’importanza di adattare e personalizzare sempre l’intervento terapeutico ed il linguaggio in modo creativo. Sarà importante adeguare il proprio lessico in modo da comunicare ed esplorare l’esperienza interna del paziente facendolo sentire a suo agio, senza forzature.

 

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